Interventi al piede
Chirurgia del piede
Alluce valgo
L’alluce valgo è una deformità del I dito del piede, nella quale il primo metatarsale si trova deviato in varismo (verso l’asse mediano del corpo), mentre il primo dito si trova deviato verso l’esterno, cioè verso le altre dita.
Si tratta di una deformità che talvolta può essere congenita, ma il più delle volte risulta essere acquisita, comparendo in pazienti in maggioranza di 40-50 anni di sesso femminile.
Fattori predisponenti possono essere il piede piatto, il piede egizio (con primo dito più lungo del secondo), l’utilizzo di scarpe a punta stretta, e malattie reumatiche quale l’artrite reumatoide.
L’alluce valgo può essere asintomatico, ma spesso intervengono vari sintomi, come callosità o borsiti dolenti sulla prominenza mediale (che si possono anche ulcerare e infettare). Il secondo dito spesso si deforma ad artiglio. Inoltre l’alluce si ruota internamente e il suo appoggio diventa insufficiente, per cui il carico viene trasferito in maggior misura sul secondo metatarsale, con conseguente metatarsalgia da trasferimento, e a volte fratture da stress. Tali sintomi possono essere sfumati, ma possono divenire anche invalidanti.
Il decorso della patologia è imprevedibile, potendosi assistere a una stabilizzazione della deformità ma anche a un suo peggioramento graduale.
Il trattamento è molto semplice, in quanto non esiste cura in grado di guarire la deformità al di fuori dell’intervento chirurgico.
Il trattamento ortesico può essere utile per alleviare i sintomi nelle forme lievi, oppure nei casi non operabili, ma comunque non è in grado di correggere la deformità. Abbiamo due forme di trattamento ortesico: la prima comprende piccoli tutori elasticizzati, feltrature e siliconi, che hanno lo scopo di ammortizzare il contatto della calzatura o del terreno sulle prominenze ossee; la seconda consiste nell’uso di plantari con scarico delle teste metatarsali.
Per le forme invalidanti o resistenti alle cure, l’intervento chirurgico consiste in un’osteotomia correttiva del primo metatarsale, che può essere eseguita con varie tecniche. Con ognuna di queste tecniche è richiesto un mese di scarico dell’avampiede (si può deambulare con calzatura apposita), e un periodo di riposo sportivo di almeno 3 mesi. Se associato ad un’adeguata riabilitazione post-operatoria l’intervento porta a risultati buoni / ottimi nel 95% dei casi.
Le tecniche chirurgiche si possono sommariamente dividere in tecniche a cielo aperto, che richiedono l’esposizione dell’articolazione, tecniche mini-invasive, che sfruttano un’incisione cutanea minima, oppure percutanee, praticate attraverso piccoli fori nella cute e con l’ausilio di radiografie intra operatorie.
E’ spesso necessario l’uso di gesti accessori, come l’osteotomia di Akin della falange prossimale, oppure la tenotomia percutanea dell’abduttore dell’alluce.
Generalmente la nostra equipe è orientata per una tecnica mini-invasiva, che ha il vantaggio di un’ottima visuale operatoria senza dover ricorrere ad ampie incisioni, né all’utilizzo eccessivo di radiazioni. L’incisione cutanea è minima e irrilevante dal punto di vista estetico. La stabilizzazione dell’osteotomia con filo di Kirschner fornisce una valida stabilità del focolaio di osteotomia con ottime percentuali di consolidazione e buon controllo del dolore post-operatorio.


Alluce rigido
L’alluce rigido è un’alterazione funzionale della prima articolazione metatarso-falangea, che risulta avere una riduzione dell’arco di movimento, in particolare della flessione dorsale. Per questo l’alluce non è in grado di accompagnare il movimento di rullata sull’avampiede e, rimanendo esteso, costringe il piede a supinare, ossia a trasferire il carico sulla parte esterna.
L’alluce rigido è legato più frequentemente a un’artrosi della prima metatarso-falangea, con formazione di osteofiti dorsali che vanno in conflitto durante la flessione dorsale, limitando ulteriormente il movimento. A questo si associa un ispessimento della placca plantare, formata dalla spessa capsula articolare, dai sesamoidi e dai tendini del flessore breve dell’alluce. Tale condizione si può verificare anche nel giovane, solitamente in conseguenza di traumi avvenuti anche anni prima, e che il paziente non sempre ricorda, che abbiano causato una lesione cartilaginea: questa poi si evolve nel tempo portando a una rigidità articolare.
Questa condizione non è facile da riconoscere in quanto spesso l’alluce non è dolente, mentre il paziente si rivolge al medico perla presenza di dolore e callosità sul bordo esterno del piede.
Il trattamento ortesico consiste nell’applicazione di un plantare con barra rigida per le dita o di una scarpa con suola rigida. Esso può portare a una buona risoluzione dei sintomi, ma solitamente per un paziente giovane è difficile accettare un simile vincolo.
L’intervento chirurgico garantisce risultati discreti, anche se di fronte a un’articolazione artrosica è logico aspettarsi dei risultati imperfetti. In caso di artrosi lieve si prediligono gli interventi che risparmiano l’articolazione: tra questi i vari tipi di osteotomia di decompressione (che permettono di correggere contemporaneamente anche eventuali deformità del dito), e l’associazione di release plantare e asportazione degli osteofiti dorsali.
In caso di artrosi grave si può cercare di conservare l’articolarità del dito con un’artroplastica. Un’alternativa più sicura, ma da valutare con attenzione, consiste nel bloccare chirurgicamente l’articolazione in posizione favorevole (artrodesi).
Le protesi di metatarso-falangea attualmente non danno buoni risultati.


Fascite plantare
La fascite plantare è un’infiammazione della fascia (o aponeurosi) plantare: questa è un ventaglio fibroso che si estende dal tubercolo calcaneare (posto sulla parte inferiore del calcagno), fino alle teste metatarsali.
Essa costituisce in pratica la “corda d’arco”, dove l’arco è costituito dalla volta plantare. Risulta intuitivo che un arco plantare accentuato (piede cavo) pone particolarmente in tensione la fascia plantare, predisponendola ad infiammarsi. Anche il piede piatto, spesso associato ad un tendine di Achille breve, predispone allo sviluppo della fascite plantare.
L’infiammazione si sviluppa più frequentemente in prossimità dell’inserzione calcaneare, dando come sintomatologia un dolore sulla superficie inferiore del calcagno, che da alcuni pazienti viene riferita anche attorno al calcagno (spesso interessa l’origine calcaneare del muscolo abduttore dell’alluce, o il nervo di Baxter che innerva tale muscolo). Il dolore è tipicamente più intenso al mattino, con difficoltà a fare i primi passi, per poi alleviarsi durante il giorno, e ripresentarsi alla sera dopo una giornata di lavoro.
La fascite plantare si associa spesso al cosiddetto sperone (o spina) calcaneare. Questa però non è un’ossificazione della fascia plantare, ma del muscolo flessore breve delle dita, adiacente alla fascia e non coinvolto nella sintomatologia. Questa osservazione è importante per chi ritiene che lo “sperone” sia la causa della fascite e che quindi vada rimosso.
La terapia fondamentale è utilizzare una calzatura con un leggero tacco: questo pone il piede in leggero equinismo e scarica la fascia, permettendole di sfiammarsi. Le ortesi specifiche per la fascite plantare prevedono un sostegno della volta plantare e uno scarico nella zona del calcagno, e sono plantari tronchi, privi di supporto per le dita.
Tra le terapie sono utili le onde d’urto, che però risultano leggermente dolorose, e vanno effettuate al di fuori del periodo di acuzie.
In alternativa sono molto utili le infiltrazioni steroidee locali, oppure il gel piastrinico.
I farmaci anti-infiammatori solitamente non danno buoni risultati.
In ultima ipotesi si può pensare di affrontare un intervento chirurgico. Per molti anni si è praticato il release della fascia plantare, gravato però da lunghi tempi di recupero (10 settimane) e risultati spesso insoddisfacenti (60% di buoni risultati). Negli ultimi anni la chirurgia si è orientata verso interventi di release eseguiti a livello del polpaccio (release del gastrocnemio secondo Barouk o Strayer), con migliori risultati (90% di soddisfazione) e tempi di recupero inferiori (3 settimane).


Metatarsalgia
Il termine “metatarsalgia” significa “dolore ai metatarsi”. I metatarsi sono le cinque ossa lunghe che collegano la mediotarsica alle cinque dita. Essi sono costituiti da una base che si articola con le ossa tarsali, da una diafisi e da una testa che si articola con le dita. La testa metatarsale sulla superficie plantare è ricoperta da un cuscinetto adiposo che permette l’appoggio al terreno: infatti le teste metatarsali, insieme al calcagno, sono tra le strutture del piede su cui si distribuisce la maggior parte del carico corporeo. Il primo metatarso è il più grosso ed è quello che assorbe la maggior parte del carico. Il secondo metatarso è più sottile, ma è lungo ed è il più inclinato in basso, e pertanto ha anch’esso un’importante funzione di carico. Quarto e quinto metatarso sono invece meno importanti dal punto di vista del carico, ma hanno invece una funzione più dinamica, essendo paralleli al terreno e più mobili.
Nel considerare le patologie dei metatarsi è fondamentale tenere a mente la formula metatarsale, ovvero la lunghezza reciproca dei metatarsi, valutabile solo attraverso una radiografia: in alcuni casi il primo metatarso è il più lungo (index plus), mentre in altri lo è il secondo (index minus).
Inoltre è importante la formula digitale, cioè la lunghezza reciproca delle dita: in alcuni casi il primo dito è il più lungo (piede egizio), in altri lo è il secondo (piede greco), in altri ancora le prime dita hanno la stessa lunghezza (piede quadrato). Questo inquadramento è importante in quanto ogni conformazione predispone a un certo tipo di problematica, come vedremo in seguito.
Vanno considerate infine le deformità delle dita, che se deformate ad artiglio non partecipano alla distribuzione dei carichi sull’avampiede e predispongono alla metatarsalgia.
Le metatarsalgie si dividono sommariamente in meccaniche e non meccaniche. Le metatarsalgie non meccaniche sono dovute a varie cause:
- Infiammatorie (malattie reumatiche)
- Infettive (ragadi, verruche plantari)
- Vascolari (diabete, malattia di Frieberg)
- Para-neoplastiche (cheratoma plantare, neuroma di Morton)
Le metatarsalgie meccaniche hanno una classificazione più variegata e complessa, e dipendono dal sovraccarico localizzato su uno o più metatarsi, causato da una problematica propria oppure dall’insufficienza dei metatarsi adiacenti.
- Sovraccarico globale dei metatarsi: è ciò che accade nel piede cavo, dove l’accentuato equinismo dell’avampiede conduce a un alterata distribuzione dei carichi che si concentrano sull’avampiede
- Sovraccarico del primo metatarso: esso si può verificare per condizioni specifiche del primo metatarso (index plus) oppure per insufficienza dei metatarsi adiacenti, che possono essere congenitamente più corti, oppure affetti da esiti di frattura che ne abbiamo alterato l’anatomia. Infine si può verificare in caso di piede cavo antero-interno.
- Sovraccarico dei metatarsi esterni: questa condizione si può verificare per la particolare conformazione anatomica dei metatarsi coinvolti (più spesso il secondo o il terzo), come accade nel piede greco, nella rigidità della seconda cuneo-metatarsale, negli esiti di frattura. Spesso però i metatarsi dolenti sono normali, ma sovraccaricati a casa dell’insufficienza del primo raggio, come accade in caso di index minus o di alluce valgo. Caso a parte è l’alluce rigido, in cui i metatarsi esterni sono sovraccaricati in quanto in assenza di una dorsiflessione sufficiente dell’alluce il paziente è portato a supinare il piede.
- Sovraccarico del quinto metatarso: è una condizione rara, visto che il quinto metatarso è relativamente mobile e parallelo al terreno, e solitamente si associa a quinto dito varo. Il plantare spesso compensa brillantemente il problema, ma non lo risolve, e pertanto si è vincolati al suo utilizzo.
Le terapie anti-infiammatorie hanno un effetto limitato nel tempo, mentre le infiltrazioni locali non sono indicate. La soluzione definitiva è spesso quella chirurgica.
Neuroma di Morton
Il neuroma di Morton, altrimenti detto neuroma interdigitale plantare, consiste in un’alterazione di un nervo interdigitale del piede, il quale si inspessisce formando una tumefazione dolente detta neuroma. Questo produce una sintomatologia dolorosa a carico della zona delle teste metatarsali a livello dello spazio intermetatarsale coinvolto, che più spesso è il terzo, più raramente il secondo.
Questo accade per diversi motivi:
- A livello del terzo spazio intermetatarsale il nervo interdigitale è più voluminoso in quanto riceve un ramo comunicante dal nervo plantare laterale
- Il terzo spazio è il più stretto dei quattro
- I primi 3 metatarsi sono più rigidi, mentre IV e V sono più mobili, per cui il terzo spazio, che connette un metatarso rigido a uno piuttosto mobile, è quello maggiormente sottoposto a stress
I sintomi riferiti dal paziente sono variabili, ma spesso rientrano tra i seguenti: metatarsalgia accentuata dalla deambulazione e dalle calzature strette o con il tacco, dolore urente che si irradia alle dita corrispondenti allo spazio coinvolto, intorpidimento delle dita.
La diagnosi è eminentemente clinica, basandosi sull’anamnesi e sull’esame obiettivo del piede. Una radiografia del piede sotto carico serve a escludere che il dolore sia legato ad anomalie ossee. Ecografia e RMN si sono dimostrate inefficaci.
La cura si basa sull’iniezione locale di steroidi, che però non possono essere ripetute, e che non sempre risolvono il problema a lungo termine. La terapia definitiva è l’escissione chirurgica del neuroma.

Piede Piatto dell'età evolutiva
La fascite plantare è un’infiammazione della fascia (o aponeurosi) plantare: questa è un ventaglio fibroso che si estende dal tubercolo calcaneare (posto sulla parte inferiore del calcagno), fino alle teste metatarsali.
Essa costituisce in pratica la “corda d’arco”, dove l’arco è costituito dalla volta plantare. Risulta intuitivo che un arco plantare accentuato (piede cavo) pone particolarmente in tensione la fascia plantare, predisponendola ad infiammarsi. Anche il piede piatto, spesso associato ad un tendine di Achille breve, predispone allo sviluppo della fascite plantare.
L’infiammazione si sviluppa più frequentemente in prossimità dell’inserzione calcaneare, dando come sintomatologia un dolore sulla superficie inferiore del calcagno, che da alcuni pazienti viene riferita anche attorno al calcagno (spesso interessa l’origine calcaneare del muscolo abduttore dell’alluce, o il nervo di Baxter che innerva tale muscolo). Il dolore è tipicamente più intenso al mattino, con difficoltà a fare i primi passi, per poi alleviarsi durante il giorno, e ripresentarsi alla sera dopo una giornata di lavoro.
La fascite plantare si associa spesso al cosiddetto sperone (o spina) calcaneare. Questa però non è un’ossificazione della fascia plantare, ma del muscolo flessore breve delle dita, adiacente alla fascia e non coinvolto nella sintomatologia. Questa osservazione è importante per chi ritiene che lo “sperone” sia la causa della fascite e che quindi vada rimosso.
La terapia fondamentale è utilizzare una calzatura con un leggero tacco: questo pone il piede in leggero equinismo e scarica la fascia, permettendole di sfiammarsi. Le ortesi specifiche per la fascite plantare prevedono un sostegno della volta plantare e uno scarico nella zona del calcagno, e sono plantari tronchi, privi di supporto per le dita.
Tra le terapie sono utili le onde d’urto, che però risultano leggermente dolorose, e vanno effettuate al di fuori del periodo di acuzie.
In alternativa sono molto utili le infiltrazioni steroidee locali, oppure il gel piastrinico.
I farmaci anti-infiammatori solitamente non danno buoni risultati.
In ultima ipotesi si può pensare di affrontare un intervento chirurgico. Per molti anni si è praticato il release della fascia plantare, gravato però da lunghi tempi di recupero (10 settimane) e risultati spesso insoddisfacenti (60% di buoni risultati). Negli ultimi anni la chirurgia si è orientata verso interventi di release eseguiti a livello del polpaccio (release del gastrocnemio secondo Barouk o Strayer), con migliori risultati (90% di soddisfazione) e tempi di recupero inferiori (3 settimane).


Piede Piatto dell'adulto
Nell’adulto un piede piatto non trattato può divenire contratto e quindi dolente. Nel tempo la distribuzione anomala dei carichi sul piede può portare ad una sua degenerazione artrosica.
Esistono inoltre casi di piede piatto acquisito in età adulta, per cause diverse come l’insufficienza del tibiale posteriore, l’artrite reumatoide, gli esiti traumatici (fratture calcaneari o della Lisfranc).
Il trattamento del piede piatto dell’adulto è complesso, ed è sempre indicato un tentativo non chirurgico. I plantari per l’adulto non hanno funzione di correzione ma soltanto di compenso. Quando il tentativo fallisce bisogna prendere in considerazione la chirurgia.
Nel giovane adulto si può ancora considerare un intervento di calcaneo-stop, ma sempre accompagnato a ritensionamento del tibiale posteriore.
Oltre i 20 anni, nel piede piatto non artrosico si può eseguire un’osteotomia varizzante del calcagno, solitamente associata all’allungamento del tendine di Achille ed eventualmente ad un’osteotomia di abbassamento del primo metatarso.
Nel piede piatto artrosico si ottiene la correzione fondendo chirurgicamente le ossa del retropiede, tramite un’artrodesi della sotto-astragalica secondo Grice, oppure una triplice artrodesi.


Tendinopatia
Il tendine di Achille è una struttura fibrosa che trasmette al calcagno la forza generata dal tricipite surale. È il tendine più grosso e robusto del corpo umano, in quanto soggetto a sollecitazioni molto forti durante il passo, e soprattutto durante la corsa. La forza di reazione del suolo nella fase di appoggio varia da 1,5 a 5 volte il peso corporeo. Considerando questi enormi carichi è chiaro che anche anomalie di piccole dimensioni possono comportare una significativa alterazione nella distribuzione dei carichi al tendine.
La tendinite dell’Achille è un semplice processo infiammatorio del tendine e/o dei tessuti che lo circondano (peritenonio, borsa pre o post-achillea), che è solitamente causata dal sovraccarico sportivo, eventualmente associato a difetti meccanici che possono causare una distribuzione anomala dei carichi (piede cavo, piede piatto, retrazione tendinea, ecc…).
Il tessuto tendineo è però scarsamente vascolarizzato, e pertanto presenta scarse capacità di recupero. Perciò il cronicizzarsi di questa condizione può condurre a processi degenerativi a carico della struttura tendine, che vanno sotto il nome di tendinosi: questa comporta la perdita della normale struttura collaginea, che viene sostituita da tessuto amorfo, con eventuali calcificazioni al suo interno, conducendo alla diminuzione di resistenza del tendine. Il tendine di Achille in questa fase si presenta dolente e aumentato di volume, e rischia di andare incontro a rottura.
La tendinopatia dell’Achille è una patologia ad andamento subdolo, che esordisce gradualmente con dolore, dapprima solo durante gli sforzi maggiori, ma che poi progredisce divenendo costante anche durante la vita quotidiana o a riposo. A causa del suo andamento insidioso l’atleta si rivolge alle cure mediche solo quando i sintomi divengono insistenti, quindi quando il quadro anatomo-patologico è già avanzato, tale da richiedere tempi di guarigione piuttosto lunghi.
La terapia delle tendinopatie dell’Achille è generalmente non chirurgica e può essere medica, fisica o riabilitativa, unitamente all’utilizzo di un rialzo calcaneare per scaricare il tendine. La terapia chirurgica comprende numerose tecniche, che prevedono tempi di recupero comunque lunghi; perciò questa opzione viene riservata ai casi refrattari dopo il fallimento di un protocollo riabilitativo ben condotto per la durata di 6 mesi.
La terapia medica si avvale dei FANS (anti-infiammatori non steroidei), il cui utilizzo suscita però molti interrogativi in quanto sappiamo che la patologia ha un substrato infiammatorio solo nelle fasi iniziali, per cui questi sono in grado di influire sul decorso della patologia soltanto in fase di esordio. I corticosteroidi, utilizzati generalmente per via locale, ottengono un buon effetto anti-infiammatorio ma possono causare un ulteriore indebolimento del tendine.
Negli ultimi anni si sta affermando l’utilizzo dell’ossigeno-ozono terapia: questa consiste in infiltrazioni locali di una miscela gassosa di ossigeno e ozono in grado di stimolare il rilascio di ossigeno dal sangue al tessuto tendineo, favorendone il recupero. Il vantaggio di questa procedura è che si pratica semplicemente in ambulatorio, che non prevede l’uso di farmaci, e che agisce direttamente sulla causa della tendinosi, cioè il lento metabolismo del tendine.
Un’ulteriore opportunità terapeutica viene fornita dalla medicina rigenerativa. Questa prevede delle infiltrazioni con concentrati piastrinici estratti dal sangue del paziente stesso (gel piastrinico o PRP – Platelet Rich Plasma): le piastrine, una volta iniettate, rilasciano dei “fattori di crescita”, ovvero delle molecole in grado di stimolare la rigenerazione dei tessuti.
La terapia fisica consiste nell’utilizzo di laser e ultrasuoni: entrambe queste terapie hanno effetto anti-infiammatorio; inoltre, somministrando calore profondo, stimolano l’apporto sanguigno al tendine, e quindi ne accelerano il recupero.
La terapia riabilitativa consiste nella riduzione dei carichi sportivi, evitando le attività che causano dolore; l’immobilità assoluta è controindicata in quanto è noto che la tensione è importante per indurre una corretta riorganizzazione delle fibre tendinee. L’esercizio di rinforzo eccentrico si è dimostrato superiore a quello concentrico in termini di risultati clinici. Importanti sono gli esercizi di stretching, ma controindicati in fase acuta. Può essere utile la massoterapia. L’uso del ghiaccio locale è indicato subito dopo l’attività fisica.
Il ritorno all’attività sportiva può avvenire nell’arco di 2-4 settimane per i casi acuti (tendinite), mentre se si instaura un processo degenerativo a carico del tendine (tendinosi), sono necessari 4-6 mesi.
Malattia di Hanglund
La malattia di Haglund è un’apofisite calcaneare, ovvero una patologia inserzionale del tendine di Achille. La tuberosità calcaneare presenta una prominenza ossea appena prossimalmente alla sede di inserzione del tendine, per cui si genera un conflitto tendine-osso, con dolore locale. Spesso la prominenza del calcagno è visibile e palpabile, tale da generare un conflitto con la calzatura, che porta alla formazione di una borsite retro-calcaneare, più frequente sul lato esterno.
La causa di questa prominenza risiede nell’esito di un’apofisite in età di accrescimento: infatti all’età dello sviluppo puberale, lo sviluppo della forza muscolare non è seguito di pari passo da un irrobustimento dell’osso, in quanto l’osso ha ancora delle zone di debolezza legate alla presenza delle cartilagini di accrescimento ancora aperte, come nel caso dell’apofisi calcaneare. Per questo nei punti di inserzione dei tendini più forti, così come all’inserzione dell’Achille, si generano delle microfratture attraverso la cartilagine di accrescimento, cosa che nel tempo porta a un accrescimento osseo aberrante, con formazione della prominenza. Un fattore favorente è il piede cavo, a causa dell’eccessiva tensione a cui il tendine di Achille è sottoposto in questo tipo di conformazione. Anche le attività fisiche ripetitive come la corsa e il calcio, favoriscono lo sviluppo di questa problematica.
La sintomatologia può assumere diversa gravità. Quando i sintomi diventano insistenti si rendono difficili le attività di endurance come la corsa.
Per quanto riguarda la terapia, se il problema prevalente è la borsite si può tentare di proteggere la parte con delle ortesi in silicone o con dei cerotti, per diminuire il conflitto con la calzatura. Negli altri casi si può provare ad affidarsi alle fisioterapie. Le infiltrazioni locali di cortisone possono essere di aiuto, però bisogna considerare l’azione lesiva del cortisone sul tendine, per cui occorre assolutamente limitare il numero di infiltrazioni.
Nella maggior parte dei casi gravi, l’unica soluzione efficace è quella chirurgica, che consiste nell’asportazione della prominenza ossea con regolarizzazione del profilo calcaneare. Si tratta di un intervento semplice, ma da non sottovalutare come impegno per il paziente, in quanto si rischia di indebolire la zona di inserzione del tendine di Achille, per cui dopo l’intervento è necessario un periodo di scarico di 3 settimane, e successivamente la fisioterapia per sfiammare l’inserzione tendinea e recuperare l’elasticità del tendine. Tale intervento può essere eseguito anche per via endoscopica, minimizzando le incisioni chirurgiche, ma dilatando i tempi dell’intervento.

Sindromi canalicolari
Una sindrome canalicolare consiste nella compressione di un nervo all’interno di un canale anatomico, con presenza di disturbi neurologici nel territorio di innervazione dello stesso. Si tratta quindi di una patologia piuttosto rara, da non confondere con le semplici affezioni dolorose.
Come nel caso della più nota “sindrome del tunnel carpale” della mano, nel piede possiamo trovare la più rara “sindrome del tunnel tarsale” che consiste nella compressione del nervo tibiale posteriore nel suo decorso perimalleolare mediale, all’interno dei retinacoli che contengono le altre strutture retromalleolari (tibiale posteriore, flessore lungo delle dita, flessore lungo dell’alluce).
Questa sindrome va affrontata chirurgicamente liberando il nervo compresso dalle strutture fibrose che lo comprimono (retinacolo dei muscoli flessori). Attenzione va posta a riconoscere condizioni associate da correggere contestualmente, più frequentemente il piede piatto.

Piede cavo
l piede cavo rappresenta una deformità complessa con supinazione del retropiede, eccessiva inclinazione del calcagno, pronazione ed equinismo dell’avampiede.
Questa conformazione predispone a tutto uno spettro di disturbi che possiamo così elencare:
- Entesopatie calcaneari incluse tendinopatia dell’Achille, malattia di Haglund e fasciopatie plantari
- Tendenza alle distorsioni in inversione con lesioni legamentose esterne e sviluppo di lassità
- Instabilità dell’appoggio
- Rigidità del mediopiede con tendenza all’artrosi nel corso degli anni
- Sovraccarico anteriore del piede
- Deformità ad artiglio delle dita
Il trattamento del piede cavo va stabilito sulla base del disturbo specifico lamentato dal paziente. Il plantare su misura e i trattamenti fisioterapici sono sicuramente la prima linea di trattamento. Sono possibili infiltrazioni locali.
I trattamenti chirurgici sono svariati, e trattandosi di una deformità complessa anche questi vanno stabiliti sulla base del disturbo prevalente. Sono possibili interventi di osteotomia correttiva per i piedi ancora elastici, mentre in presenza di rigidità o artrosi vengono preferite le artrodesi modellanti. Interventi minori possono anche essere indicati, come il trattamento delle entesopatie calcaneari, le ricostruzioni legamentose, la correzione delle dita.
Piede Reumatico
Le malattie reumatiche, più frequentemente l’artrite reumatoide, colpiscono spesso il piede. Sono possibili forme esclusivamente infiammatorie (tendiniti, artriti), fino allo sviluppo di artrosi e di deformità.
L’avampiede è spesso colpito per primo, con artriti della seconda metatarso-falangea, deformità ad artiglio delle dita, deformità complesse di avampiede con artrosi della prima metatarso-falangea e lussazione delle metatarso-falangee esterne. Il retropiede è colpito meno frequentemente, con tendinopatie del tibiale posteriore, forme artritiche e artrosiche, deformità in piattismo di tipo acquisito.
La prima fase di trattamento prevede l’utilizzo di farmaci anti-infiammatori e terapie specifiche per la malattia di base. La fisioterapia e l’utilizzo di plantari sono di supporto.
La chirurgia deve essere mirata alla manifestazione principale, con un ampio spettro di interventi chirurgici a disposizione, tenendo conto però che si tratta di pazienti ad elevato rischio chirurgico (infezioni, deiscenze cutanee, ritardo di consolidazione ossea, recidiva delle deformità).

Piede diabetico
I problemi principali oggi per i diabetici non sono più quelli legati alla sopravvivenza, ma quelli legati alle complicanze croniche del diabete, sia microangiopatiche (retinopatia, nefropatia, neuropatia) che macroangiopatiche (cardiopatia ischemica, arteriopatia degli arti inferiori, arteriopatia dei tronchi sovra-aortici).
Tra le complicanze del diabete un ruolo sempre più rilevante assume il “piede diabetico”. E’ questa la complicanza che comporta per i diabetici il maggior numero di ricoveri ospedalieri. Se poi si pensa alle previsioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha stimato in 250 milioni il numero di diabetici nel 2025 rispetto ai 120 milioni stimati nel 1996 si può pensare a quale dimensione assuma questo problema: stime sempre dell’OMS dicono infatti che circa il 15% dei diabetici andrà incontro nella sua vita a un’ulcera del piede che richiede cure mediche.
Tuttavia il problema più rilevante legato a un’ulcera del piede nei diabetici è il rischio di amputazione con perdita di tutto il piede: nei diabetici vengono eseguite più del 50% di tutte le amputazioni maggiori (sopra la caviglia). Nell’84% dei casi l’amputazione viene effettuata in conseguenza di un’ulcera del piede che non guarisce e si aggrava: è evidente quindi che se si vuole ridurre il numero di amputazioni è necessario migliorare la capacità di curare efficacemente l’ulcera. L’incidenza di nuove ulcere nel diabete è stimata intorno 2/100 pazienti/anno.
A seconda degli elementi patogenetici che concorrono alla loro formazione, le ulcere possono anche definirsi rispettivamente neuropatiche, ischemiche, neuroischemiche, tutte con possibile sovrapposizione infettiva. Sebbene siano stati elaborati nel tempo diversi sistemi per stadiare una lesione ulcerativa secondo parametri diversi, la classificazione di Wagner è quella più diffusamente accettata. Essa identifica 6 categorie di lesioni progressivamente ingravescenti, dal grado 0 al Grado 5, secondo l’interessamento dei diversi piani tessutali, la localizzazione topografica e la eventuale presenza di infezione.
Grado 0: “Piede a rischio”, senza ulcerazioni attive, ma con deformità o zone di sovraccarico che predispongono alla formazione di ulcere
Grado 1: Ulcera superficiale
Grado 2: Ulcera profonda con esposizione di tendini, capsule articolari o legamenti
Grado 3: Ulcera profonda esposizione ossea
Grado 4: Gangrena localizzata
Grado 5: Gangrena diffusa
Capitolo a parte il piede di Charcot, che comporta un progressivo sovvertimento strutturale del piede, fino alla perdita della sua normale architettura.
Gestire questa patologia in modo efficace significa istruire il paziente sulle misure preventive da adottare (calzature, cura del piede), trattare chirurgicamente i “piedi a rischio” prima che si verifichino complicanze, trattare le ulcere per portarle a guarigione quando possibile.
I mezzi a disposizione del medico, prima di giungere all’amputazione sono:
Chirurgia preventiva del “piede a rischio”, per eliminare deformità o zone di sovraccarico che possono condurre alla formazione di ulcere.
Utilizzo di plantari su misura o calzature apposite sia per il piede a rischio, sia per il periodo post-operatorio.
Trattamento chirurgico delle ulcere non infette tramite pulizie chirurgiche ed eliminazione delle salienze ossee o delle deformità che possono causare la recidiva dell’ulcera.
Trattamento chirurgico delle ulcere infette tramite pulizie chirurgiche e prelievi per esami colturali per permettere il trattamento antibiotico mirato delle infezioni.
Utilizzo di tecniche di ausilio per la guarigione delle ulcere, quali ossigenoterapia iperbarica e VAC terapia.
In associazione al trattamento chirurgico è importante valutare il compenso generale della patologia diabetica, nonché un trattamento di chirurgia vascolare.
Come risulta chiaro da questa breve esposizione, per la cura del piede diabetico sono fondamentali una diagnosi e un trattamento tempestivo e organizzato, nonché una presenza sul territorio in grado di seguire il paziente nel tempo.